
disperata
di vita
troppo
breve
per essere vissuta
senza
conoscere
senza riconoscere
senza
provare
la sensazione
di
riscaldarmi l'animo
con la voglia
di amare
Nato dal sogno per un sogno: quello di condividere con gli altri l'amore per la scrittura, sia essa prosa o poesia. La scrittura amica sincera di tutte le mie età, dei momenti in cui la felicità riempiva le mie giornate e di quelli in cui la tristezza mi sprofondava negli abissi terribili della più cupa disperazione. Tutti gli scritti e le immagini del Blog sono di proprietà di Pierpaolo Pacione ©
La luce del sole, ormai alto, filtra serpeggiando tra l’anta del balcone aperto e le tende bianche, di tessuto leggero che sembrano ballare un bolero silenzioso con l’aria che le attraversa.
Dal basso il rumore delle onde che continuano ad accarezzare i grandi scogli sotto la nostre finestra, si confonde con quello di una musica conosciuta, ma indistinta. La tua mano è appoggiata alla mia. La tua, scura, abbronzata, con le unghie lunghe e ben curate, la mia molto più chiara, con le unghie sempre rovinate e le dita un po’ storte. Mi giro piano ed una briciola, ricordo della colazione che ti ho portato questa mattina, mi solletica
Mi stai guardando, come al solito sogno ad occhi aperti, sorridi, gli occhi tuoi sono teneri e pieni di amore. Con la mano destra cerchi il lenzuolo e lo tiri verso di te. Ti sei accorta di avere il seno scoperto ed arrossisci. Vorrei fare o dire qualcosa per farti capire quanto sono innamorato di te, ma non trovo nulla di meglio che rimanere in silenzio ed immobile, facendo scorrere il mio dito indice sul tuo braccio. Rimaniamo così ad ascoltare il frangersi delle onde ed il sussurro del vento tra le tende, il profumo di lavanda e cannella delle nostre lenzuola.
Mi sei mancata così tanto che ora non mi sembra vero averti qui tutta per me. Ora sei qui, vicino a me. Dolcemente tra le mie braccia, meravigliosa quando guardi ancora di sottecchi il mio tatuaggio.
Ci eravamo svegliati presto questa mattina, avevamo fatto colazione a letto, poi tu mi avevi preso tra le braccia…
Lancio svogliatamente un occhiata all’orologio che avevo poggiato ieri sera sul comodino azzurro a fianco al letto, segna le 13,45. In pratica abbiamo passato l’intera mattina chiusi in camera. Ti scuoto dolcemente e tu come sempre da quando ti conosco mi guardi, sorridi, allarghi le braccia. Fra qualche ora dovremmo ripartire e forse sarebbe bene mangiare qualcosa prima di rimettersi in moto.
Ci vestiamo velocemente. Ti guardo mentre ti vesti e penso che non ci sia nulla di più meraviglioso di te. Indossi reggiseno e mutandine coordinate, semplici, ma sembrano la cosa più sexy che abbia mai visto. Sopra un t-shirt bianca e un paio di jeans. Leghi i capelli in quel modo così meraviglioso da lasciarmi incantato. Sono i tuoi gesti, quelli semplici che fai tutti i giorni da quando ti frequento eppure, ancora oggi non so spiegarmene il motivo, questi gesti mi affascinano e mi stregano legandomi ogni momento di più a te.
Percorriamo il corridoio, scendiamo la ripida rampa di scale. La signora che ci ha accolto all’arrivo ci vede e le si accende su volto un sorriso incantevole quasi quanto il tuo. Tu mi prendi la mano e la stringi, con l’altra infili gli occhiali e cominci a camminare con il naso lievemente all’insù. Arriviamo alla scalinata, quei tre gradini che ci hanno dato il benvenuto ci aspettano assolati, la ghiaia del vialetto scricchiola sotto i tuo sandali con il tacco, lievemente e dolcemente. L’ombra del grande buganvilee ci traghetta fuori dalla nostra pensione. È caldo, ma è lieve passeggiare per questo piccolo paesino affacciato sul mare. L’odore intenso dell’acqua salmastra, la brezza che gioca con i tuoi capelli, questo sole settembrino che bacia innamorato il tuo viso, tutto sembra creato apposta per noi due. Poche persone, percorrono queste viuzze, fino a qualche giorno fa affollate come il Corso di una grande città. Oggi regna il silenzio sonnacchioso dei giorni di festa: un regalo per noi.
Ci fermiamo di fronte ad un ristorantino che appoggia i suoi tavolini sulla banchina del porto, quasi a ridosso della bitta dove sono ormeggiati un paio di pescherecci bianchi e azzurri. Tovaglie semplici, apparecchiate con piatti di un bianco abbagliante, due bicchieri ed al centro una candela mezza consumata e spenta. Il profumo delle pietanze a base di pesce ci accarezza lo stomaco, come al solito non ci servono parole, quello è il tavolo che abbiamo prenotato il primo giorno che ci siamo conosciuti.
Ci sediamo, l’uno di fronte all’altro, il sole è ancora alto, leggermente più basso dello zenit, gioca a far splendere i tuoi capelli con i colori della gioia e della felicità.
Sembra tutto un sogno, tutto talmente bello da sembrare il sogno sempre sognato di uno scrittore alle prime armi. Ti guardo come ti guardo dal primo giorno che ho realizzato che si parlava di sentimento condiviso, ancora oggi incredulo, ancora oggi stupito dal fatto che Tu possa trovare qualcosa in me. Ti amo, ti ho sempre amato, ti amo così da prima di conoscerti, da prima di sapere che esistevi. Ti amo perché la cosa che voglio di più è starti vicino, sentire il tuo respiro mentre dormi tranquilla al mio fianco, sentire il tuo dito accarezzare piano il mio braccio, sentirti ridere e vedere i tuoi occhi riempirsi di gioia bambina. Oggi la frase più semplice da dire è: “Ti amo”. Non volermene, ma mentre ti guardo, incorniciata dal sole più bello del mondo, mentre facendo finta di stiracchiarti allunghi le tue braccia verso di me. Le tue mani alla ricerca delle mie mani. Intrecci le tue dita alle mie ed io mi perdo per l’ennesima volta nello splendore di due occhi che mi strabiliano e mi trascinano dentro di loro ogni volta che trovo il coraggio di specchiarmici.
Mi stai raccontando di qualcuno dell’ufficio, ma io, completamente rapito dai miei pensieri non ho ascoltato una parola. Quando te ne accorgi fai finta di mettere il broncio. È solo un attimo, sai perfettamente a cosa pensavo. Ci si avvicina solerte un cameriere, alto e allampanato, ha un grosso naso e due orecchie a sventola enormi, inoltre ha il viso addobbato con due baffetti alla Clark Gable, veramente irresistibili. È la simpatia fatta persona. Ci comunica seduta stante di chiamarsi Giorgio e che non è un cameriere qualsiasi, bensì il proprietario del locale e che per oggi avrà l’onore di essere lui la nostra guida nel fantastico mondo culinario che conduce. Gli lasciamo carta bianca e ci affidiamo al nostro novello Virgilio per scoprire le meraviglie di questo Paradiso della Cucina. Giorgio si allontana con un sorriso soddisfatto sotto i baffetti.
Mentre aspettiamo fiduciosi la nostra attenzione viene catturata da due persone che arrivano più o meno dalla medesima direzione dalla quale siamo arrivati noi. Anche l’andatura e il modo di tenersi per mano li fa rassomigliare in maniera sconvolgente a noi. La grande differenza risiede però nella loro età, sono molto più vicini ai settanta che ai sessanta. Quello che sorprende, anche a questa distanza, è la luce nei loro occhi, il modo che hanno di guardarsi, di parlarsi. Si tengono stretti, osservano il mare, il cielo, con gli occhi dell’amore. Sono eleganti e distinti, vestiti con le tinte pastello del mare, si avvicinano ad uno dei tavoli vicino al nostro. Solo ora mi rendo conto di quanto sciocco sia stato io: lui la precede teneramente per arrivare al tavolo qualche secondo prima di lei, sposta la sedia, la fa accomodare e le avvicina
Anche tu ti sei accorta di quanto è accaduto appena a qualche metro da noi. Mi guardi, sorridi, più con gli occhi che con la bocca ed io mi scopro di amarti da sempre.
Sei ferma a prua, ti reggi allo strallo del fiocco. Guardi avanti, intenta a scrutare il niente. Chissà a cosa pensi. Siamo da poco fuori dalla Marina di Roma. Abbiamo deciso di viaggiare di notte, sfruttando questa brezza leggera da Sud che increspa solo leggermente un mare d’argento, altrimenti calmo come il tavolo da pranzo del soggiorno.
Ti guardo in silenzio dal pozzetto, illuminato appena dalla luce degli strumenti di navigazione.
41°
Lasco un filo la randa, allentando la scotta dal winch di sinistra. Il log mi conferma un nodo in più.
Con l’aereo ormai lontano il silenzio è assoluto, solo lo sciacquio dolce della prua del nostro Bavaria che taglia dolcemente l’acqua, lasciando dietro di se una scia fosforescente.
Ingaggio il pilota automatico, il mare di fronte a noi è completamente libero. Il ponte è leggermente sbandato verso sinistra. Controllo un’ultima volta gli strumenti, quindi saltando sulla panca di dritta ti raggiungo a prua. Mentre mi avvicino mi accorgo che sei scalza, indossi quella felpa blu che ti ho regalato qualche tempo fa e dalla quale non ti separi mai quando siamo insieme. Il berretto con la visiera della Murphy ti trattiene i capelli. Mi fermo un attimo sei bellissima. Ogni volta che ti guardo non posso fare a meno di pensarlo, non posso fare a meno di pensare a quei primi giorni, a quell'interminabile periodo, che sembrava non finire più, in cui dovemmo separarci. Sembrano passati decenni. Ogni volta che ti guardo il mio cuore perde un piccolo battito ed io mi sollevo qualche centimetro da terra.
Ti raggiungo, sembri accorgerti di me solo ora, ti abbraccio da dietro, facendo passare le mie braccia sotto le tue. Bacio il solito posto, dietro il tuo orecchio destro. Un leggero brivido ti percorre, chissà se stai pensando anche Tu a quel primo giorno. Era l’ultimo giorno di Luglio.
Rimaniamo così per un minuto o forse più, il mare e la brezza da Sud cullano dolcemente la nostra barca. Ti giri lentamente verso di me, avendo cura di far passare il braccio destro dietro lo strallo; ti appoggi quasi al genoa teso e mi guardi profondamente negli occhi. Sei silenziosa e pensierosa. Sei tenera e decisa. Mi guardi e i tuoi occhi mi arrivano in fondo al cuore, rimestano nel mio animo e pescano tutto il mio amore per te. Vorrei non farti capire quanto sei importante per me, vorrei non dirti così spesso che ti amo. Non vorrei essere la parte debole di questo rapporto, ma Tu mi spogli di tutte le mie difese, delle mie armature. Mi hai colto di sprovvista, non mi hai dato tempo di mettere in atto tutta quella serie di tattiche che mi ero creato per essere sempre dalla parte di chi comanda in un rapporto. Ma mai come in questo momento, con te vicino a me, con te che mi baci con dolcezza le labbra, sono felice di non aver difese. Domani è un altro giorno…
La nebbia ha il suo odore… forse sono pazzo, ma sono convinto di questo. La nebbia ha un odore caratteristico. Sento che fuori la porta dell’alloggio troverò un’altra mattinata di nebbia. Dura, lattiginosa, per me spaventosa. Non conosco la nebbia, non conosco questa nebbia. Vengo da una città in cui svegliarsi con questa atmosfera è un avvenimento più unico che raro. Qui sembra esattamente il contrario, sono a Montorio Veronese da circa due mesi e ancora non sono riuscito a capire cosa c’è intorno a me.
Sono due mesi che, per la prima volta in vita mia, sono veramente lontano da casa. Sono un sottotenente, dopo cinque, estenuanti, mesi di corso, ho ricevuto i gradi e la destinazione: caserma “Duca”, Montorio Veronese, praticamente Verona. Ho lasciato Roma, con l’altro amico con medesima destinazione, in una giornata di pioggia. La Panda carica all’inverosimile, i genitori in strada a salutarci. Fa sorridere… oggi.
Cesare mi guarda, gli occhi leggermente lucidi:
“Anche Roma sembra piangere il fatto che partiamo”.
“Già!” – rispondo cercando di fare un po’ il duro.
Siamo stati fortunati, un buon comandante, un bel reparto. Ci fanno addirittura scegliere gli incarichi che preferiamo svolgere. Due volte fortunati: Cesare è un animale da divisa elegante, gli piace svegliarsi con calma, preferisce il lavoro di ufficio. Io, mattiniero per vocazione e per scelta, adoro stare dove ci si sporca le mani, la mia mimetica è già pronta per il ritocco fuori ordinanza: le tasche all’altezza delle ginocchia, come quella dei paracadutisti. Scelgo di occuparmi del reparto addestrativo. Scuola guida a Grezzana o Boscomantico. Autocolonne, officina. Sono diventato amico del maresciallo dell’officina. Ci sarà da divertirsi.
Bisogna essere fuori dalla caserma prima dell’alzabandiera, ci svegliamo prima di tutti, quando ancora gli altri poltriscono sotto le coperte. Il freddo, l’umido di quei giorni li porto ancora con me. Un freddo che ti entra nelle ossa, che attraversa lo strato leggero del cotone della mimetica. Quanto avevamo riso, quando a Roma, il primo giorno del corso ci avevano fornito, insieme alle altre cose della famigerata “superpippo”: mutandoni lunghi di lana con annessa magliettona intima del medesimo materiale. La prima volta che la indossavi sembrava di avere mille aghi che si conficcavano nella pelle. Ma quante benedizioni, poi, le abbiamo mandato. L’abbiamo usata fino a consumarla.
Che freddo che faceva, alle 6,30 del mattino sotto quei capannoni un po’ lugubri della Tettoia Mezzi Corazzati: la TMC. Un freddo che veniva riscaldato dalle risate dei nostri venti anni. I caporali istruttori tentavano di tenere inquadrati i plotoni con le “spine” che la mattina avrebbero dovuto fare le guide. Risate, un “và in mona” veneto a cui rispondeva un “minchia” siciliano. Mi vedevano arrivare solo un attimo prima che comparissi, la nebbia in questo mi era amica. Ero il loro ufficiale, c’erano i riti militari da rispettare. Si faceva silenzio, i caporali preparavano la presentazione della forza. Attenti, riposo, sui camion! I ragazzi viaggiavano sui cassoni, teli rigorosamente su. Io, in cabina cercavo un po’ di conforto con il riscaldamento e pensavo a loro. Li vedevi parlottare, vicini, vicini. Un pò li invidiavo. Li vedevi discutere animatamente in dialetti diversi. Tutti lontani da casa, tutti con qualche rimpianto nel cuore. Si parlava con mamma e fidanzata solo a condizione di trovare un telefono a gettoni che funzionasse. Quante telefonate mancate, quanti ti voglio bene rimasti tra le labbra quando cadeva l’ultimo gettone, quanto era più difficile parlare con chi ti voleva bene, sembrano passati cento anni oggi.
Parlavano fra loro, discutevano dell’ultima conquista in discoteca, della ragazzetta del bar che si trovava appena fuori dalla caserma. Erano belle le ragazze veronesi, sembravano tutte belle. Erano tutte ricche le ragazze veronesi. Erano eleganti, erano diverse. Erano amori improbabili, amori della nostalgia e della curiosità. Amori dei venti anni, belli e dolci nel ricordo. Un amore “terrone” troppe volte ostacolato dalle famiglie e dagli amici. Erano amori che venivano vissuti di nascosto nella città di Romeo e Giulietta. Quante promesse perse in quei giorni freddi e umidi; un “ti amo” tra la nebbia, vicino ad un fiume dolce come l’Adige, al riparo di un ponte così vecchio da chiamarsi Ponte Vecchio. Un ponte nato per fuggire, non dai nemici, ma dagli amici. Parlavano fra loro, soffiandosi nelle mani, cercando di creare un po’ di calore. Parlavano della macchina comprata qualche mese prima di partire a fare il militare, la stessa macchina che ora avevano lasciato in custodia al fratello minore con il compito di accenderla un giorno si ed uno no e con il divieto assoluto di fumarci dentro o peggio ancora di usarla. Parlavano tra loro della ragazza con gli occhi scuri ed il seno grosso che li aspettava al paese. La stessa ragazza che aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri dell’altro amico. Le stesse storie, gli stessi sorrisi, le stesse domande mi facevano questi ragazzi scambiando un grado per esperienza. Io rispondevo, perché dovevo farlo; rispondevo a domande a cui tutto sommato anche oggi avrei difficoltà a trovare la giusta soluzione.
Venti anni i miei come i loro, la stessa nostalgia di casa, la stessa voglia di correre tra le braccia di un amore nuovo.
C’era un campanile, appena fuori da Montorio, dietro la linea ferroviaria e quelle mattine in cui la nebbia ci concedeva una tregua, si poteva vedere il sole sorgere lentamente da dietro quell’elegante creazione architettonica. Sorgeva con eleganza regale, facendo capolino da dietro la finestra a bifora e rilucendo sullo spigolo della campana grande.
La foschia leggera di quelle mattine era un toccasana dopo i giorni cupi di quella pioggerellina fredda che non bagnava, dopo quell’umido che ti toccava l’anima con gli artigli gelidi.
Il freddo di quelle mattine lo porto ancora con me, come porto con me l’immagine di quel sole rosso dietro quel campanile nella bruma mattutina. L’immagine sfocata dalla brina gelata sul finestrino del mio camion. Un’immagine che si fonde con il chiacchiericcio sommesso dei ragazzi che accompagnavo a guidare. Del calabrese che faceva il duro, del padovano che era andato al cinema per la prima volta, del ragazzo di un paesino del bresciano che era fidanzato con una ragazza di un altro paese, ma lei ancora non lo sapeva.
Quel freddo che si riscaldava solo all’arrivo al bar del paese, dove facevamo colazione e il grosso barista anziano, con il vocione baritonale mi chiedeva con il meraviglioso accento veneto se volevo un “goccin de graspa” nel caffè. Alle sette del mattino? Ma si!
Quelle giornate sempre uguali, l’una all’altra, nel monotono dipanarsi della sicura routines militare. Eppure ciascuno di quei giorni ti insegnava qualcosa di più, ti regalava quell’emozione della scoperta che oggi è così difficile da riprodurre.
Le goccioline fredde, scivolavano piano sul finestrino disegnando improbabili mappe di misteriosi e fantastici continenti mai esistiti. Le studiavo rapito, indovinando dietro lo schermo lattigginoso della nebbiolina il profilo della città e l’intreccio austero delle vie già affollate nonostante l’ora mattutina.
Li porto tutti con me, quei ragazzi che mi hanno odiato e voluto bene. Porto con me il cordone da caporale istruttore, regalatomi l’ultimo giorno dai miei ragazzi. Tutti con le lacrime agli occhi. Ora li potevo finalmente salutare con un abbraccio, non ero più un loro superiore. Ero uno di loro che tornava a casa. Mi concedono il loro ultimo saluto “alla visiera”, nonostante io sia in borghese. Un sorriso, i loro sorrisi mentre me ne andavo con un groppo in gola, con la voglia e la felicità di tornare da dove ero partito solo qualche mese prima. Le porto con me le risate di quel capodanno passato con la guardia al Deposito Carburanti. Una bottiglia di spumante ed una fetta di panettone divisa con loro, nonostante la tristezza di essere lì piuttosto che a casa. Ma c’era comunque quel sorriso che oggi conservo su di una vecchia fotografia sgualcita con i volti di ragazzi di cui non ricordo assolutamente il nome. Porto con me quel campanile dal quale sembrava sorgere il sole, le passeggiate in una città meravigliosa e tutt’altro che fredda. Porto con me, per sempre l'immagine di quella ragazza bionda che mi sorrise quella sera e di cui oggi vorrei tanto ricordare il nome. Tutto questo è chiuso nel mio cuore, con la speranza che magari qualcuno di quei ragazzi mi ricordi ancora oggi e che nonostante i miei soli vent’anni qualcosa di buono io possa avergli regalato.
“Ah Tene’ ci viene a ballà con noi stasera?”...
Ci vuole un minuto per notare una persona speciale, un'ora per apprezzarla, un giorno per volerle bene, ma poi tutta una vita per dimenticarla. Charlie Chaplin