I passi risuonano nel cortile ancora addormentato la mattina presto. Rondini, planando sul pelo dell'acqua della piscina a caccia di insetti, si lasciano dietro una piccola scia di motoscafo. Da una finestra aperta del primo piano qualcuno canticchia a bassa voce: " ...dammi tre parole: sole, cuore, amore. Dammi un bacio che non fa parlare...". Odore di caffè appena preparato solletica il naso, facendo uggiolare il mio stomaco. Scendo i dodici scalini della rampa sporca del garage, quindici passi in avanti, svolto a destra: sette passi. Premo sul tasto del telecomando dell'antifurto: scattano secche le serrature, i fanalini delle frecce occhieggiano rassicurandomi con un sonoro BIIP, BIIP. Salgo in auto; l'odore della macchina pulita mi fa bene, mi fa sentire in ordine, con la vita e con me stesso. "Veramente c'è un pò di polvere, se posso poi la porto a lavare". Pochi secondi bastano per riscaldare le candelette dell'accensione... Mi ricordo quando si doveva accendere la macchina di mio padre, se non passava almeno un minuto, non si partiva. C'erano quei momenti di sospensione, che eri già in viaggio, ma non eri ancora partito! Si rimaneva tutti in silenzio, poi la fida Peugeot celestina dava un colpo di tosse, un filo di nerofumo usciva dal tubo di scappamento. Ricordo che guardavo mio padre con ammirazione, lo guardavo impegnato a guidare ed ero fiero di lui: che fosse mio padre. Si parlava, si dicuteva per ore. Si viaggiava sul filo dei centoventi senza troppo preoccuparci. Viaggi che oggi sembrano uno scherzo li pianaficavamo per tempo, si preparava l'auto. Il mattino ci si alzava presto, mio padre ed io eravamo i primi a scendere, si caricava, si scherzava un pò e poi si facevano scendere gli altri. Mio padre guidava ed ascoltava musica classica o jazz. Si parlava di scuola. Mi beccavo ramanzine lunghe quanto un'autostrada, ma era tutto bellissimo. Lui era lì, forte comne quercia, dolce come un padre. Gli occhi celesti mi guardavano e sapevo che mi voleva bene. Sapevo già tutto di lui, ma mi piaceva farmelo raccontare, mi piaceva pensare che lui si fidasse di me. Quando si voltava verso di me, seduto sul sedile del passeggero, mi guardava, allungava una mano e con il palmo mi accarezzava la testa con un gesto che solo con lui aveva un significato speciale. Mi diceva, quel gesto: "Sei mio figlio, ti voglio bene e tu ne vuoi a me". E' stato anche l'ultimo gesto cosciente di mio padre. E' stato terribile vederlo su quel letto di ospedale, non più in grado di vedere o sentire, ma con il cuore ancora deciso ad andare avanti. Io dovevo essere quello più forte, ma non ce l'ho fatta. Sono uscito, mi sono seduto fuori. Piangevo. Piangevo lacrime che avevo messo via da parecchio tempo. Poi qualcuno mi sussurrato in un orecchio: "E' finito!" Che vuol dire? Mio padre sono oltre dieci anni che non c'è più. Che non mi parla più e oggi sono io quello ad essere guardato dal sedile del passeggero. Mia figlia mi guarda. Ogni tanto, mi volto piano, cercando di non farmi vedere e scopro il suo sguardo rivolto verso di me. Allora allungo il braccio e con tutta la tenerezza del ricordo le accarezzo il capo e le dico con quel gesto: "Sei mia figlia, ti voglio bene e tu ne vuoi a me."
Controllo di aver allacciato la cintura di sicurezza, la mano destra si allunga verso il pulsante della radio e l'apparecchio prende vita. Una voce allegra mi annucia poco traffico e sole. Dalla tasca dello sportello di sinistra prendo il fodero del CD che ormai ascolto senza interruzione: "Pooh". Con due dita estraggo il disco dal fodero e lo infilo nel lettore. Dodi battaglia attacca "Portami via". Cantto con lui.
Qualche metro di retromarcia, devo fare attenzione: quello mi parcheggia sempre più vicino.
Penso a te, innesto la prima e il motore sembra borbottare contento. Stacco lentamente la frizione. Le ruote iniziano lentamente ad avanzare. Pochi metri esauriti lentamente fino all'auscita del cortile mi permettono di indossare l'auricolare del telefono ed inforcare gli occhiali da sole. Un saluto al portiere che sta aprendo la guardiola e sono fuori. Penso a te.
Guardo il sedile del passeggero e ti immagino già seduta al mio fianco. La strada, a questa ora, è ancora completamente sgombra ed i semafori lampeggiano oziosi. Pochi cani portano a spasso padroni mezzo addormentati e con i pantaloni infilati malamente sul pigiama. Ci vuole poco per arrivare all'imbocco dell'autostrada. Il Telepass fischietta gioioso il suo permesso a transitare. Regolo la velocità appena sopra i centotrenta. I fari accesi illuminano la strada. Le poche macchine che sono sulla strada vanno più piano di me e si lasciano sorpassare senza difficoltà. I Pooh continuano a cantare; li ascolto senza sentirli. Penso a te, alla voglia di vederti, di abbracciarti, di stringerti, di non lasciarti mai più. Sono passati più di dieci giorni da quel saluto sulla porta di casa tua e non ti avevo più sentito. Quando poi, non me lo aspettavo più ha squillato il cellulare, ieri sera: era il tuo nome quello che leggevo sul display. L'ho guardato senza capire. Era troppo bello per essere vero. La tua voce felice, allegra, mi ha chiesto come stavo: "Ora bene!" ho sentito rispondere dalla mia stessa voce, quasi senza fiato. Mi hai detto che saresti arrivata oggi con il traghetto a Civitavecchia. "Ti va di venirmi a prendere? Così poi andiamo in ufficio insieme, tanto arrivo alle sette!".
Sono già in viaggio verso te.
Qualche metro di retromarcia, devo fare attenzione: quello mi parcheggia sempre più vicino.
Penso a te, innesto la prima e il motore sembra borbottare contento. Stacco lentamente la frizione. Le ruote iniziano lentamente ad avanzare. Pochi metri esauriti lentamente fino all'auscita del cortile mi permettono di indossare l'auricolare del telefono ed inforcare gli occhiali da sole. Un saluto al portiere che sta aprendo la guardiola e sono fuori. Penso a te.
Guardo il sedile del passeggero e ti immagino già seduta al mio fianco. La strada, a questa ora, è ancora completamente sgombra ed i semafori lampeggiano oziosi. Pochi cani portano a spasso padroni mezzo addormentati e con i pantaloni infilati malamente sul pigiama. Ci vuole poco per arrivare all'imbocco dell'autostrada. Il Telepass fischietta gioioso il suo permesso a transitare. Regolo la velocità appena sopra i centotrenta. I fari accesi illuminano la strada. Le poche macchine che sono sulla strada vanno più piano di me e si lasciano sorpassare senza difficoltà. I Pooh continuano a cantare; li ascolto senza sentirli. Penso a te, alla voglia di vederti, di abbracciarti, di stringerti, di non lasciarti mai più. Sono passati più di dieci giorni da quel saluto sulla porta di casa tua e non ti avevo più sentito. Quando poi, non me lo aspettavo più ha squillato il cellulare, ieri sera: era il tuo nome quello che leggevo sul display. L'ho guardato senza capire. Era troppo bello per essere vero. La tua voce felice, allegra, mi ha chiesto come stavo: "Ora bene!" ho sentito rispondere dalla mia stessa voce, quasi senza fiato. Mi hai detto che saresti arrivata oggi con il traghetto a Civitavecchia. "Ti va di venirmi a prendere? Così poi andiamo in ufficio insieme, tanto arrivo alle sette!".
Sono già in viaggio verso te.
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