mercoledì 18 aprile 2007

Ah Tene'...

La nebbia ha il suo odore… forse sono pazzo, ma sono convinto di questo. La nebbia ha un odore caratteristico. Sento che fuori la porta dell’alloggio troverò un’altra mattinata di nebbia. Dura, lattiginosa, per me spaventosa. Non conosco la nebbia, non conosco questa nebbia. Vengo da una città in cui svegliarsi con questa atmosfera è un avvenimento più unico che raro. Qui sembra esattamente il contrario, sono a Montorio Veronese da circa due mesi e ancora non sono riuscito a capire cosa c’è intorno a me.

Sono due mesi che, per la prima volta in vita mia, sono veramente lontano da casa. Sono un sottotenente, dopo cinque, estenuanti, mesi di corso, ho ricevuto i gradi e la destinazione: caserma “Duca”, Montorio Veronese, praticamente Verona. Ho lasciato Roma, con l’altro amico con medesima destinazione, in una giornata di pioggia. La Panda carica all’inverosimile, i genitori in strada a salutarci. Fa sorridere… oggi.

Cesare mi guarda, gli occhi leggermente lucidi:

“Anche Roma sembra piangere il fatto che partiamo”.

“Già!” – rispondo cercando di fare un po’ il duro.

Siamo stati fortunati, un buon comandante, un bel reparto. Ci fanno addirittura scegliere gli incarichi che preferiamo svolgere. Due volte fortunati: Cesare è un animale da divisa elegante, gli piace svegliarsi con calma, preferisce il lavoro di ufficio. Io, mattiniero per vocazione e per scelta, adoro stare dove ci si sporca le mani, la mia mimetica è già pronta per il ritocco fuori ordinanza: le tasche all’altezza delle ginocchia, come quella dei paracadutisti. Scelgo di occuparmi del reparto addestrativo. Scuola guida a Grezzana o Boscomantico. Autocolonne, officina. Sono diventato amico del maresciallo dell’officina. Ci sarà da divertirsi.

Bisogna essere fuori dalla caserma prima dell’alzabandiera, ci svegliamo prima di tutti, quando ancora gli altri poltriscono sotto le coperte. Il freddo, l’umido di quei giorni li porto ancora con me. Un freddo che ti entra nelle ossa, che attraversa lo strato leggero del cotone della mimetica. Quanto avevamo riso, quando a Roma, il primo giorno del corso ci avevano fornito, insieme alle altre cose della famigerata “superpippo”: mutandoni lunghi di lana con annessa magliettona intima del medesimo materiale. La prima volta che la indossavi sembrava di avere mille aghi che si conficcavano nella pelle. Ma quante benedizioni, poi, le abbiamo mandato. L’abbiamo usata fino a consumarla.

Che freddo che faceva, alle 6,30 del mattino sotto quei capannoni un po’ lugubri della Tettoia Mezzi Corazzati: la TMC. Un freddo che veniva riscaldato dalle risate dei nostri venti anni. I caporali istruttori tentavano di tenere inquadrati i plotoni con le “spine” che la mattina avrebbero dovuto fare le guide. Risate, un “và in mona” veneto a cui rispondeva un “minchia” siciliano. Mi vedevano arrivare solo un attimo prima che comparissi, la nebbia in questo mi era amica. Ero il loro ufficiale, c’erano i riti militari da rispettare. Si faceva silenzio, i caporali preparavano la presentazione della forza. Attenti, riposo, sui camion! I ragazzi viaggiavano sui cassoni, teli rigorosamente su. Io, in cabina cercavo un po’ di conforto con il riscaldamento e pensavo a loro. Li vedevi parlottare, vicini, vicini. Un pò li invidiavo. Li vedevi discutere animatamente in dialetti diversi. Tutti lontani da casa, tutti con qualche rimpianto nel cuore. Si parlava con mamma e fidanzata solo a condizione di trovare un telefono a gettoni che funzionasse. Quante telefonate mancate, quanti ti voglio bene rimasti tra le labbra quando cadeva l’ultimo gettone, quanto era più difficile parlare con chi ti voleva bene, sembrano passati cento anni oggi.

Parlavano fra loro, discutevano dell’ultima conquista in discoteca, della ragazzetta del bar che si trovava appena fuori dalla caserma. Erano belle le ragazze veronesi, sembravano tutte belle. Erano tutte ricche le ragazze veronesi. Erano eleganti, erano diverse. Erano amori improbabili, amori della nostalgia e della curiosità. Amori dei venti anni, belli e dolci nel ricordo. Un amore “terrone” troppe volte ostacolato dalle famiglie e dagli amici. Erano amori che venivano vissuti di nascosto nella città di Romeo e Giulietta. Quante promesse perse in quei giorni freddi e umidi; un “ti amo” tra la nebbia, vicino ad un fiume dolce come l’Adige, al riparo di un ponte così vecchio da chiamarsi Ponte Vecchio. Un ponte nato per fuggire, non dai nemici, ma dagli amici. Parlavano fra loro, soffiandosi nelle mani, cercando di creare un po’ di calore. Parlavano della macchina comprata qualche mese prima di partire a fare il militare, la stessa macchina che ora avevano lasciato in custodia al fratello minore con il compito di accenderla un giorno si ed uno no e con il divieto assoluto di fumarci dentro o peggio ancora di usarla. Parlavano tra loro della ragazza con gli occhi scuri ed il seno grosso che li aspettava al paese. La stessa ragazza che aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri dell’altro amico. Le stesse storie, gli stessi sorrisi, le stesse domande mi facevano questi ragazzi scambiando un grado per esperienza. Io rispondevo, perché dovevo farlo; rispondevo a domande a cui tutto sommato anche oggi avrei difficoltà a trovare la giusta soluzione.

Venti anni i miei come i loro, la stessa nostalgia di casa, la stessa voglia di correre tra le braccia di un amore nuovo.

C’era un campanile, appena fuori da Montorio, dietro la linea ferroviaria e quelle mattine in cui la nebbia ci concedeva una tregua, si poteva vedere il sole sorgere lentamente da dietro quell’elegante creazione architettonica. Sorgeva con eleganza regale, facendo capolino da dietro la finestra a bifora e rilucendo sullo spigolo della campana grande.

La foschia leggera di quelle mattine era un toccasana dopo i giorni cupi di quella pioggerellina fredda che non bagnava, dopo quell’umido che ti toccava l’anima con gli artigli gelidi.

Il freddo di quelle mattine lo porto ancora con me, come porto con me l’immagine di quel sole rosso dietro quel campanile nella bruma mattutina. L’immagine sfocata dalla brina gelata sul finestrino del mio camion. Un’immagine che si fonde con il chiacchiericcio sommesso dei ragazzi che accompagnavo a guidare. Del calabrese che faceva il duro, del padovano che era andato al cinema per la prima volta, del ragazzo di un paesino del bresciano che era fidanzato con una ragazza di un altro paese, ma lei ancora non lo sapeva.

Quel freddo che si riscaldava solo all’arrivo al bar del paese, dove facevamo colazione e il grosso barista anziano, con il vocione baritonale mi chiedeva con il meraviglioso accento veneto se volevo un “goccin de graspa” nel caffè. Alle sette del mattino? Ma si!

Quelle giornate sempre uguali, l’una all’altra, nel monotono dipanarsi della sicura routines militare. Eppure ciascuno di quei giorni ti insegnava qualcosa di più, ti regalava quell’emozione della scoperta che oggi è così difficile da riprodurre.

Le goccioline fredde, scivolavano piano sul finestrino disegnando improbabili mappe di misteriosi e fantastici continenti mai esistiti. Le studiavo rapito, indovinando dietro lo schermo lattigginoso della nebbiolina il profilo della città e l’intreccio austero delle vie già affollate nonostante l’ora mattutina.

Li porto tutti con me, quei ragazzi che mi hanno odiato e voluto bene. Porto con me il cordone da caporale istruttore, regalatomi l’ultimo giorno dai miei ragazzi. Tutti con le lacrime agli occhi. Ora li potevo finalmente salutare con un abbraccio, non ero più un loro superiore. Ero uno di loro che tornava a casa. Mi concedono il loro ultimo saluto “alla visiera”, nonostante io sia in borghese. Un sorriso, i loro sorrisi mentre me ne andavo con un groppo in gola, con la voglia e la felicità di tornare da dove ero partito solo qualche mese prima. Le porto con me le risate di quel capodanno passato con la guardia al Deposito Carburanti. Una bottiglia di spumante ed una fetta di panettone divisa con loro, nonostante la tristezza di essere lì piuttosto che a casa. Ma c’era comunque quel sorriso che oggi conservo su di una vecchia fotografia sgualcita con i volti di ragazzi di cui non ricordo assolutamente il nome. Porto con me quel campanile dal quale sembrava sorgere il sole, le passeggiate in una città meravigliosa e tutt’altro che fredda. Porto con me, per sempre l'immagine di quella ragazza bionda che mi sorrise quella sera e di cui oggi vorrei tanto ricordare il nome. Tutto questo è chiuso nel mio cuore, con la speranza che magari qualcuno di quei ragazzi mi ricordi ancora oggi e che nonostante i miei soli vent’anni qualcosa di buono io possa avergli regalato.

“Ah Tene’ ci viene a ballà con noi stasera?”...

3 commenti:

Anonimo ha detto...

ciao pier io fatto il milite a montorio ero il 2/84 alla duca nn so se coincide cn il tuo periodo...mi ricordi il freddo...quello vero!ehehhee l'hai descritto bene,anni andati...peccato ..ti lascio la mia mail chissà io sono di roma tuscolano ciao Antonio
covisas@tiscali.it

Anonimo ha detto...

Non so neanche come sono arrivato qui. Colpa della pioggia e del freddo, che mi ha fatto preferire un monitor al mondo. Ma ne è valsa la pena.Dire che questo tuo scritto mi è piaciuto è dire poco. Leggendolo mi sono rivisto e sentito immerso in emozioni vissute. Io sono stato a Bassano ed a Belluno, anch'io in quella età nella quale la vita la senti scorrere nelle vene assieme alla volglia di ridere, ed anch'io mi porto dentro una ragazza, ma era mora di capelli, gli occhi scuri, il sorriso di luce.
Ciao tenè

Anonimo ha detto...

sono stato a Montorio a fare il CAR... era il dicembre 1991. Un freddo cane. Mi ricordo la coda di mezz'ora fuori all'aperto per fare colazione. E ricordo il bar di Montorio dove si andava ogni tanto alla sera in libera uscita. Quanta nostalgia di casa si aveva tutti.
Saluti
cesaregariboldi@hotmail.com